L’Africa (di G. Carbone)

IV ed. aggiornata, Il Mulino, 2021 — Una recensione

Outbound: تمريدة
13 min readMar 11, 2021

In questi giorni in libreria è uscita la nuova edizione aggiornata del libro “L’Africa” di Giovanni Carbone, Professore ordinario di Scienza Politica dell’Università degli Studi di Milano. Edita da Mulino, “L’Africa” è ormai da diversi anni una delle monografie italiane più conosciute sui regimi politici e i conflitti dell’Africa subsahariana. E anche una delle più efficaci, perché in grado di raccogliere una grande quantità di dati e concetti, spesso poco conosciuti ai più, in un testo comunque agile e lineare. Caratteristiche, per nulla banali, che contraddistinguono anche questa quarta edizione e che la rendono una lettura adatta sia per chi, per la prima volta, complici alcuni recenti avvenimenti di cronaca (inter)nazionale, vuole esplorare i grandi temi della regione subsahariana, sia per chi, occupandosene da più tempo, è comunque alla ricerca di un quadro aggiornato.

Nei paragrafi che seguono ne propongo una recensione che, in realtà, è più una introduzione critica alla sua lettura, in quanto pensata e costruita (perlopiù in RStats) come un percorso guidato attraverso le pagine del libro e finalizzato a illustrarne e commentarne i temi principali utilizzando proprio i dati numerici (i numeri) e testuali (le parole) del testo stesso. Ciò è stato possibile grazie all’opportunità, concessami nei mesi scorsi, di poter contribuire all’aggiornamento di questi “dati” per la nuova edizione del volume. La speranza è che questi spunti di riflessione possano convincere più lettori ad avvicinarsi al volume e alle diverse realtà subsahariane che esso affronta, oggi spesso ancora incomprese quando non completamente ignorate.

Quale Africa?

L’Africa di cui tratta il libro è la regione subsahariana. Come messo in chiaro nell’introduzione, infatti, ci sono motivazioni storiche e culturali che suggeriscono, ai fini della ricerca (questa, ma così come di tante altre), di separare (e in questo caso anche di escludere) il Nord Africa mediterraneo dal resto del continente. Dedicare un libro all’intera area subsahariana rimane comunque un esercizio tanto ambizioso quanto rischioso, in quanto si espone potenzialmente al rischio di finire per trascurare un punto fondamentale secondo molti, incluso chi scrive qui, ovvero la grande diversità interna di un’area così estesa (motivo per cui sarebbe talvolta più opportuno parlare di “Afriche”). Esistono chiaramente molteplici dinamiche comuni che caratterizzano, nel bene o nel male, l’intera area subsahariana nel suo complesso e che infatti costituiscono la spina dorsale del libro. Eppure, queste dinamiche continentali si declinano spesso in modo differente nelle diverse subregioni, quando non nei diversi singoli paesi. Il volume non tradisce sotto questo aspetto e anzi, a conferma di questa diversità interna, in ogni capitolo l’autore inserisce quadri di approfondimento dedicati a casi studio di singole esperienze nazionali o subregionali, o perché particolarmente emblematiche dell’argomento principale del capitolo in cui sono presenti o perché quell’argomento si è invece sviluppato in modo distinto rispetto al resto della regione. Un esercizio, quello dei quadri di approfondimento, che inoltre aiuta il lettore a comprendere meglio considerazioni teoriche che altrimenti rischierebbero di rimanere troppo generiche.

La figura 1 mostra la frequenza con cui le principali subregioni subsahariane e i paesi a loro appartenenti vengono affrontati nel libro, descrivendo anche come si distribuiscono lungo i diversi capitoli. Alle regioni dei Grandi Laghi e dell’Africa occidentale, ovvero le più ricorrenti nel volume, viene dato molto spazio soprattutto nelle sezioni sui conflitti (in cui invece l’Africa australe è decisamente più marginale) e, nel caso dell’Africa occidentale, anche nelle sezioni sui processi di democratizzazione. Entrando poi ancor più nel dettaglio, le cartine presenti nella parte inferiore del grafico e poste in corrispondenza di ogni capitolo mostrano quali sono nello specifico i singoli paesi affrontati in ognuno di essi, con una maggiore o minore intensità del colore a seconda della frequenza con cui vengono citati nel testo.

Figura 1. Quale Africa? (HoA experts, don’t despair — yet)

Le tematiche

L’obiettivo del volume non è raccontare tutto dell’Africa subsahariana. Sarebbe incompatibile con le sue dimensioni (non supera le 300 pagine). Come in parte già suggerisce il sottotitolo in copertina, il volume si concentra solo su alcuni macro-temi che forniscono le coordinate generali dell’opera. Questi sono: la formazione degli stati (capitolo 1), gli autoritarismi e la corruzione (cap. 2), i conflitti armati (cap. 3) e le cause delle guerre civili (cap. 4), ma anche le riforme democratiche (cap. 5), la crescita economica e l’attenzione delle grandi potenze extra-continentali (cap. 6). Da una rapida network analysis, volta a scoprire i termini più importanti all’interno della rete di parole del libro e illustrata nella figura 2, si ottiene una conferma (scontata) di quanto appena detto, ma anche qualche dettaglio aggiuntivo, come il ruolo da protagonista che la Somalia ricopre suo malgrado nelle descrizioni di conflitti, violenze e crisi istituzionali (cap. 3).

Figura 2. Le parole chiave del volume, o di come raccontare l’Africa senza abusare delle ‘migrazioni’

Ogni capitolo approfondisce i propri macro-temi di riferimento analizzandone diverse sfaccettature e, come già detto, affiancando considerazioni teoriche più astratte a casi empirici più specifici. Per quanto tutti meriterebbero particolare attenzione, qui ci si limita a una panoramica veloce di alcuni di questi spunti di riflessione, per un semplice ragione. Se l’obiettivo di questa recensione è suscitare nel lettore domande e riflessioni a cui il volume è in grado di dare risposte approfondite, allora sarà sufficiente offrirne un’anteprima, rimandando ogni approfondimento al volume stesso.

Il capitolo di apertura, su potere, istituzioni e confini, ricorda l’importanza del periodo coloniale, in particolare analizzando come esso abbia lasciato al continente una importante eredità di confini, di istituzioni e perfino di identità culturali. I confini di molti paesi africani infatti nacquero spesso da “logiche a dir poco stravaganti” (p. 46) imposte dalle potenze occidentali. Ma, non meno importante, anche l’etnicizzazione stessa di diverse società africane venne accentuata proprio dai sistemi amministrativi del colonialismo europeo che, unendo o separando gruppi diversi, contribuirono a cristallizzare e rafforzare le appartenenze di tipo etnico. (C’è poi chi, con ironia, fa notare come anche i nomi degli stessi leader africani siano conseguenza più o meno diretta delle azioni europee passate: 🎥)

Segue un capitolo su corruzione, reti clientelari e regimi autoritari. Grazie al nuovo dataset Africa Leadership Change, trattato più nel dettaglio poco sotto, è soprattutto l’analisi sulla permanenza al potere di questi regimi e dei loro leader a rinnovarsi con nuovi dati che mostrano le tendenze principali della regione subsahariana, in termini sia di modalità di alternanza al potere (dai colpi di stato alle successioni elettorali) che di durata della leadership statale (forte contrapposizione tra paesi che nell’arco dei decenni hanno avuto nessuna o solo un paio di alternanze al potere e chi, spesso a causa di frequenti colpi di stato, ne ha avute decine).

Il terzo capitolo affronta il tema delle crisi istituzionali e dei conflitti. Nonostante l’apertura poco rassicurante — “le prime ribellioni armate fecero la loro comparsa in Africa quando la campana delle indipendenze nazionali non aveva ancora finito di battere i suoi rintocchi” (p. 135) — il capitolo in realtà rivela come la violenza in Africa abbia recentemente registrato anche qualche trend positivo. Analizzando i dati dell’UCDP/PRIO di Oslo si osserva che, per quanto negli ultimi anni siano tornate a crescere le violenze unilaterali e non statali (attacchi contro civili, scontri tra gruppi etnici, tra pastori e agricoltori, etc.), i conflitti di matrice statale di maggiore intensità (ovvero le guerre tra stati e le guerre civili con oltre 1000 vittime l’anno — per una discussione critica sulla soglia, sulla definizione e su molto altro, si veda anche il nuovo libro di Alessandro Colombo) e il numero di vittime da loro causate sono invece rimasti più contenuti, a livelli inferiori rispetto agli anni novanta.

Concentrandosi invece sulle cause di queste guerre civili, il quarto capitolo ne analizza quelle principali. Nel passaggio in cui si esaminano due di quelle che hanno riscosso maggiore successo, ovvero l’ipotesi greed (profitto dalle violenze) e l’ipotesi grievance (esclusione politico-economica), il volume ricorda come non sia “necessario né opportuno contrapporr[l]e […] come spiegazioni totalmente antitetiche e alternative” considerato che possono entrambe “contribuire all’emergere di un conflitto” (p. 181). Se non inquadrate in un più ampio contesto di esclusione o marginalizzazione di determinati gruppi, le prime possono infatti dare conto solo fino a un certo punto della complessità delle guerre civili africane, e di certo non per quegli stati che sono privi di risorse naturali da cui trarre guadagno. Tale senso di ingiustizia ed esclusione politico-economica può inoltre a sua volta favorire la presa di richiami religiosi o etnici sui gruppi esclusi. Ma seppur oggi, come ieri, risulti difficile trovare conflitti africani completamente privi di “una qualche tinta etnica” (p. 143) o religiosa, non è l’evidenza di una avvenuta politicizzazione delle diversità etniche e religiose ad implicare che quest’ultime siano state di per sé (e non per mezzo di un contesto di marginalizzazione politico-economica) la causa originaria di quei conflitti.

In questo capitolo, infine, non manca qualche cenno sui mercenari — nello specifico quelli della società sudafricana Executive Outcomes — anche se difficilmente ciò potrà appagare gli ‘appassionati’ di Mad Mike, Bob Denard e Black Jack…

Lasciandosi alle spalle violenze e conflitti, il quinto capitolo esamina finalmente gli sforzi di rinnovamento politico compiuti dai paesi subsahariani dagli anni ‘90 in poi. In trent’anni, ovvero anche da quando Freedom House misura sistematicamente la democraticità dei sistemi politici nazionali, nella regione si è verificato un notevole progresso in termini di difesa delle libertà civili e politiche — i cosiddetti paesi liberi o parzialmente liberi sono aumentati da 14 a 31 (su 49) — seppur con talvolta successive involuzioni negative. A questo riguardo è particolarmente significativo il monito lanciato nel paragrafo conclusivo: “[l]a democratizzazione […] non è mai una strada senza ritorno” (p. 222).

L’ultimo capitolo affronta infine anche la crescita economica di inizio millennio, ottenuta sulla scia delle riforme politiche del decennio precedente nonostante i numerosi problemi strutturali (dal 2020 ulteriormente aggravati dalle crisi legate al Covid-19) e coincisa con una decisa ripresa dell’interesse internazionale per questa regione. E’ un capitolo, quindi, che si rivolge tanto a chi vuole scoprire le diverse sfaccettature dei recenti progressi economici subsahariani quanto a chi è alla ricerca di una panoramica sulle relazioni tra l’Africa e i grandi paesi extra-africani. Lo sguardo sulla competizione internazionale nel continente non deve però far pensare che quest’ultimo sia o sia stato un corpo inerte. Anzi, “[p]ur nel contesto di rapporti [asimmetrici] […] gli stati africani hanno sempre più spesso dimostrato di non essere solo un oggetto passivo per chi arriva da fuori, resistendo o provando a resistere ai tentativi di imposizioni esterne” (p. 258).

ZOOM & SWIPE | Serie di cartine — una per capitolo — che fotografano in singole istantanee alcuni dei diversi temi appena descritti, anche se in certi casi utilizzando indicatori presi da fonti non impiegate nel volume stesso (📩 PDF: docdro.id/OOrGYZ5)

L’Africa Leadership Change (ALC) dataset

Come anticipato, tra i punti di forza della nuova edizione vi è l’utilizzo del nuovo dataset ALC creato da Giovanni Carbone e Alessandro Pellegata (Political Leadership in Africa, Cambridge University Press, 2020). Una raccolta originale di tutti i cambi di leadership avvenuti nel continente africano dal 1960 ai giorni nostri. Molti paesi subsahariani sono stati caratterizzati per lungo tempo da un esercizio personalistico del potere da parte dei loro leader che, godendo di ampi poteri e reti clientelari, finivano per rimanere in carica oltre a quanto consentito, quando non venivano rapidamente eliminati da colpi di stato militari. Questo almeno fino all’arrivo delle riforme multipartitiche degli anni ‘90, che hanno portato dei primi, limitati tentativi di riforma politica a diffondersi sempre più nel resto del continente. I dati ALC, presentati nel capitolo 2 del volume, classificano in modo sistematico ed inedito queste dinamiche, permettendo così di raccontare con rigore l’evoluzione e le implicazioni politiche delle transizioni al potere nei paesi africani, in particolar modo mostrando come, dal 1990, sia incrementato il numero di cambi di leadership avvenuti per mezzo di elezioni multipartitiche (anche se non ovunque: 🎥), e come, negli ultimi anni, il colpo di stato sia invece diventato sempre più raro.

Da sei anni a questa parte si sono infatti registrati solo due passaggi di leadership tramite colpo di stato (ad agosto in Mali — non presente nel volume che ferma l’analisi dei dati a fine 2019 — e in Sudan nel 2019, operato contro Omar al-Bashir da parte del generale Ahmed Awad Ibn Auf il quale, dopo un solo giorno, rassegnando le proprie dimissioni ha a sua volta ceduto il potere al generale Abdel Fattah al-Burhan per una successione non violenta ma neppure elettorale).

Figura 3. Timeline dei cambi di leadership dal 1960 a oggi, secondo i dati dell’Africa Leadership Change dataset

I leader più citati

Che siano stati pacifici (elettorali e non) o violenti, sempre secondo i dati ALC dal 1960 al 2019 nella regione subsahariana sono stati oltre 300 i cambi di leadership, per una durata media di 6 anni l’uno. Numeri che, come indicato sempre nel capitolo 2 del volume, presentano però enormi variazioni se calcolati paese per paese. Le Comore, ad esempio, hanno visto addirittura 20 cambi di leadership in 45 anni di indipendenza (tra leader spesso ricorrenti), mentre ben 10 paesi al 2019 avevano registrato non più di due cambi al potere nell’arco della loro intera storia post-indipendenza (cf. tabella 2.2 del volume).

Un modo per verificare quali di questi leader, perlomeno secondo la sensibilità (soggettiva ma competente) dell’autore, abbiano fatto la storia dell’Africa subsahariana è guardare alla frequenza con cui sono citati nel volume. Chiaramente, molto influente è la presenza o assenza di quadri di approfondimento su paesi o eventi di cui un leader è stato protagonista. Ma essendo questi una scelta dell’autore sulla base di ciò che egli reputa essere degli aspetti chiave della storia dei paesi subsahariani, i risultati non vengono in alcun modo invalidati. Chi viene nominato più spesso è perché si ritiene abbia giocato un ruolo centrale nei momenti chiave del proprio paese o dell’intera regione.

Vince, senza troppe sorprese, Mobutu Sese Seko, dittatore per più di trent’anni dello Zaire (l’attuale Repubblica Democratica del Congo), seguito da molti altri leader pluri-decennali. Mediamente, infatti, i 10 leader più citati nel testo e presenti nella figura 4 qui sotto sono rimasti in carica 20 anni (i due Kabila li conto come una unica voce “dinastica”). L’unico tra questi attualmente ancora al potere è Yoweri Museveni, presidente dell’Uganda in carica dal 1986 (a conferma della tesi secondo cui il potere logora chi non ce l’ha: 🎥), mentre tra di loro non figura nessuna donna — vale la pena sottolinearlo visti alcuni casi noti (Sirleaf in Liberia, Samba-Panza in Centrafrica, Joyce Banda in Malawi) e i comunque buoni risultati di alcuni paesi in termini di parità di genere, anche se generalmente solo a livello parlamentare (Rwanda).

Dall’analisi del testo, infine, emerge una sorpresa: il personaggio fino a poco fa raffigurato più di ogni altro come promessa (sic) del continente — il giovane primo ministro etiope Abiy Ahmed, insignito nel 2019 del Premio Nobel per la Pace (incomprensibile, dato che venne premiato il leader politico di un paese già allora lacerato da molteplici conflitti interni) — non è mai nominato direttamente (lo è, invece, la pace tra Etiopia ed Eritrea del 2018, di cui lui è stato uno dei protagonisti). Vero è che, in confronto ai leader pluri-decennali di ieri e di oggi che guidano la speciale classifica delle citazioni, Abiy è in carica da poco meno di tre anni e che l’aggiornamento del volume è stato effettuato prima che lui si avventurasse nell’offensiva militare contro la leadership della regione del Tigray, non trattata nel testo. Ma l’attuale presidente della Repubblica Democratica del Congo, Félix Tshisekedi (protagonista nel 2018, insieme all’allora presidente uscente Joseph Kabila, della prima alternanza democratica nella storia di quel paese), che è in carica da perfino meno tempo, è comunque esplicitamente citato nel testo. Ad ogni modo, analisi del testo a parte, il “caso Abiy” ci ricorda come, per lui e per chiunque altro, non basti annunciare la pace per ottenerla e farne un evento di effettiva portata storica per cui valga la pena essere ricordati e citati.
(Peace is not a word,
it is a behaviour.
Papa Houphouët)

Figura 4. I leader più citati

Né ottimista né pessimista: Afro-realista

Complessivamente, l’immagine che emerge è quella di una regione non priva di situazioni di difficoltà ma con anche tendenze positive certamente meritevoli di attenzione. La Sentiment Analysis del volume, che (pur con molti limiti metodologici) analizza il “sentimento” positivo o negativo delle sue parole, ne è la conferma. Come mostrato nella figura 5, soprattutto nelle ampie sezioni su guerre, crisi e violenze (capitoli 3 e 4), il sentimento negativo è comprensibilmente quello predominante. Tuttavia non mancano spiragli positivi, soprattutto quando si guarda alle indipendenze (capitolo 1), alle riforme democratiche (capitolo 5) e alla notevole crescita economica di alcuni paesi africani (capitolo 6). Viste le premesse (il sottotitolo che preannuncia la centralità dei conflitti), il risultato dell’analisi poteva dopotutto essere ben peggiore.

Emblematica di questa miscela ‘afro-realista’ è proprio una delle frasi conclusive del volume: “L’Africa subsahariana — con i suoi numerosi paesi, ancora relativamente giovani — resta la regione più povera e per molti aspetti più vulnerabile del globo, ma non rimane ferma” (p. 259).

Figura 5. Sentiment Analysis con in evidenza i termini positivi e negativi più ricorrenti

Con parole loro

In chiusura, non poteva mancare una word cloud con le parole più frequentemente associate ad ogni paese. Con parole loro, tre per l’esattezza, i paesi subsahariani nel volume si raccontano così:

I nomi dei paesi appaiono sulla cartina passandoci sopra con il cursore

E infine, per rimanere in tema, descrivendola in una sola parola anche questa nuova edizione de L’Africa si conferma essere un’opera essenziale. Lo sono dopotutto i temi affrontati, in quanto effettivamente indispensabili per conoscere sia i percorsi compiuti finora che le sfide del prossimo futuro (impegnative, date le ulteriori difficoltà, soprattutto sociopolitiche ed economiche, create dalla pandemia nella regione). Lo è altrettanto lo stile, secondo l’altra accezione del termine, in quanto accessibile anche a un pubblico ampio e non solo a quello specializzato. Duplice essenzialità che la rende, di fatto, uno di quei classici da sottolineare, evidenziare, annotare, e a cui di tanto in tanto ritornare.

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